Saturday, June 7, 2008

Contro l’impero del denaro

Avvenire 26/02/1997

Padre Alex Zanotelli


di Roberto Beretta

Dal fondo della baraccopoli la denuncia di padre Zanotelli, alfiere degli "ultimi".


«Padre Alex». Nel «giro» missionario è quasi un mito, sia per le pungenti denunce di quand’era direttore di Nigrizia che per la scelta di andare – finita in burrasca la parentesi giornalistica – a condividere la vita dei diseredati di Korogocho, una delle bidonville che cerchiano Nairobi (Kenya).

Di certo, per il comboniano Alessandro Zanotelli si è spesso usata la categoria di «profeta», preferibilmente abbinata all'aggettivo «scomodo». E, in effetti, lui non ha mai lesinato - nei periodici tour che lo portano, richiestissimo, da un capo all'altro dello Stivale le accuse e talvolta le invettive contro l'«impero del denaro» e i suoi robusti tentacoli: le banche, le multinazionali, il debito estero, l’ordine mondiale che strangola i poveri. Dalla baracca di lamiera di Korogocho, padre Alex fa l'alfiere degli «ultimi» anche meglio di prima. E non sempre in accordo con gli stessi confratelli.


Padre Zanotelli, di recente lei ha criticato il "lusso" di certe case missionarie; un'osservazione cui alcuni confratelli hanno replicato: «Senza strutture non si aiutano nemmeno i poveri». Anche perché si tratta di mezzi - case, telefoni, auto - che utilizza lei stesso... Che cosa risponde?

«Prima di tutto vorrei precisare che, se c'è una cosa che non mi sento di fare, è quella di giudicare gli altri, siccome mi sento anch'io un povero peccatore. Quello che ho scritto e detto, però, lo sostengo di nuovo, perché lo ritengo importante. La mia denuncia partiva da un esempio del Madagascar: un prete che laggiù aveva visitato diverse case di religiosi (non ho parlato di missionari) mi ha riferito il suo profondo scandalo che davanti alla miseria imperante i religiosi si costruissero case con materiali importati dall'Italia. Ho poi condotto il discorso su Nairobi sostenendo che, di fronte ai due milioni di baraccati della città, vedere una serie di case belle e con giardini stupendi come quelle dei religiosi fa rimanere choccata moltissima gente. Se vogliamo essere religiosi, infatti, uno degli aspetti fondamentali è proprio la semplicità di vita e mi sembra che di testimonianza in tal senso non ne diamo se continuiamo a vivere nel paradiso terrestre (come io lo chiamo). Su questo non mi ricredo, perché è una constatazione che chiunque può fare. Quanto alle strutture: certo, ne abbiamo tutti bisogno. Bisogna però stare molto attenti: fino a che punto esse servono l'uomo e fino a che punto ci rendono prigionieri? E poi: noi siamo eredi dell'illuminismo e crediamo nello sviluppo illimitato; ma ormai Questo sogno è finito e occorre ripensare anche le strutture in vista di un futuro che non dev’essere quello degli europei e degli americani. Se tutti vivranno come noi, infatti a questo mondo nessuno potrà più vivere. Le strutture devono rispondere alle esigenze essenziali della gente, senza sollevare bisogni indotti».


Sull’uso del denaro nella chiesa si sono sviluppate le più opposte teorie. Una molto diffusa è che i soldi sono “neutri” e che la loro moralità dipende dall’uso. È d’accordo?

«Sostengo che la Chiesa, dopo i primi tre secoli, in questo ha purtroppo abbandonato la prassi evangelica. Ci sono quindi un sacco di cose da ripensare, soprattutto sul rapporto tra Vangelo ed economia. Quanto ai soldi, non li ritengo importanti in sé ma li includo nel contesto globale delle strutture: che toccano per esempio anche lo Stato o la legge... Io penso che tutte le potenze siano buone; ma sono decadute; ma sono redimibili. Dunque il denaro non è da demonizzare, perché se lo spezzi diventa pane, diventa Eucarestia; e questa mi sembra la prospettiva cristiana. Ma bisogna stare attenti: troppi credono di poter possedere a volontà, tanto loro sono distaccati... Storie!. Soprattutto in un mondo dove il denaro fa denaro (e su questo la Chiesa dovrà pur pronunciarsi un giorno), resta il pericolo di attaccarsi ai soldi».


Qualche suo confratello stima invece che esista un «carisma del denaro»: ovvero una capacità di far fruttare i talenti finanziari per far crescere il Regno di Dio. Che cosa risponde?

«Che ritengo immorale far fruttare soldi con soldi. Non è concepibile che solo spostando denaro da una parte all'altra si facciano miliardi: è un'operazione immorale e nessun bene può giustificarla. Affermazioni del genere sono molto pericolose».


Anche le teorie «pauperiste», che ricorrono spesso nella Chiesa, possono essere «pericolose», visto che il loro assolutismo sembra – oltre che irrealizzabile - pure poco evangelico. La povertà può diventare un «idolo»?

«La povertà, intesa come uno stile di vita il più semplice possibile (quella di Korogocho infatti non è povertà bensì miseria: ed è peccato) col quale poter realizzarsi come uomini, oggi è l'unica scelta possibile, se vogliamo avere un domani. Il tipo di sviluppo attuale, infatti, non ha futuro. La povertà, dunque, non solo non è un idolo, ma è l'unica virtù cui possiamo appellarci. Gandhi l’aveva capito, e prima di lui Gesù. I tempi forzeranno anche noi a capirlo, se vogliamo vivere. La ricchezza è un idolo, quella sì: perché nella società occidentale viviamo solo peri soldi, che sono pura idolatria. Il discorso evangelico è chiaro: la ricchezza, quando diventa accumulo di beni fine a se stesso, è idolatria. Non la povertà. A meno di concludere che Gesù era idolatra...» .


C'è qualche prete che teorizza l'illegittimità della proprietà privata o la condivisione «obbligatoria» dei beni: ma non crede che queste idee darebbero origine a un controllo totalitario molti peggiore dell'attuale ordine mondiale che lei contesta?

«Io contesto l'ordine mondiale fino in fondo, perché penso che sia un disordine che ci sta portando tutti alla morte. Poi, però, non ho nessuna ricetta in mente. Neanche il Vangelo costituisce una base per il futuro, contiene semmai dei germi e una forza che ci spinge a cercare modelli alternativi. Ma tutto il resto sono ideologie. Sulla proprietà privata, per esempio, se ne son dette di tutti i colori. La Chiesa, almeno a livello magisteriale, è stata abbastanza chiara: c'è una valenza sociale per ogni proprietà. Però questo principio non l'abbiamo assolutamente messo in pratica. Come fare, allora? Toccherà alla comunità, ai politici decidere».


Nelle sue denunce lei mette spesso nel mirino le banche: sono dunque loro il «nemico» morderno della Chiesa?

«Non c'è nessun "nemico". Neanche Reagan, che pure non potevo digerire, non è un "nemico" ma un fratello, prigioniero di un sistema come siamo tutti. Non accetto dunque la definizione di "nemico". Né le banche lo sono, anche se restano le depositarie dell'impero del denaro. Credo anzi che tutti quelli che vivono nel mondo della finanza abbiano enormi responsabilità e debbano essere aiutati a capire che, se il denaro non serve a tutti gli uomini, alla fine ci rende schiavi. Qui serve la metodologia non-violenta. Gli antinucleari cristiani americani, per esempio, salivano sui treni che trasportavano i missili per sedersi accanto al manovratore e chiedergli: "Fratello, ti rendi conto di ciò che fai?". Ecco la logica di Gesù: aiutare i fratelli, banchieri compresi, a capire che il sistema è sbagliato».


Non le sembra di battere troppo il chiodo economico? Far dipendere i destini del mondo solo da equilibri finanziari non indica una visione troppo materialista della vita?

«Insisto anche troppo poco sull'aspetto economico. È pura follia pensare che possiamo risolvere i problemi appellandoci ai capi di Stato. Oggi è l’economia che decide e i politici devono adeguarsi. E la Chiesa non ne ha ancora preso coscienza. Siamo fermi alla socialdemocrazia, pensiamo che con un governo buono e dei bravi cristiani al potere convertiremo la società. Dobbiamo invece capire che il cuore del Vangelo è l'economia e trasformare (Eucarestia in scelte economiche quotidiane, contro la schizofrenia dei credenti che adempiono il precetto ma poi - usciti di chiesa - è tutto un altro mondo. Ecco perché insisto: a tutti i livelli, anche nelle università pontificie, abbiamo bisogno di gente che studi economia. O cambia quello o non avverrà mai nulla».


Lei critica le strutture economiche della Chiesa: ma quale modello propone?

«Non sono né un economista né un esperto. Meno che meno ho in testa progetti concreti. La critica che faccio è la seguente: così com'è, la Chiesa appare a molti funzionale all'impero del denaro e non è altro che un segno di croce benedicente su questo sistema. Come cambiare, però, è tutto da decidere. Secondo me non ci sarà un cambiamento dall'alto, ma dal basso, dalla conversione dei cristiani. Il resto dev'essere inventato».


Proprio la Chiesa, tuttavia, ha insegnato nei secoli a milioni di uomini un corretto uso dei beni ed ha riequilibrato con la carità molte ingiustizie sociali. Come giudica la sua funzione oggi?

«La Chiesa è stata bravissima a fare la carità, e lo è anche oggi. Ma Hélder Câmara diceva: "Faccio la carità e tutti mi applaudono. Chiedo giustizia e mi si dice che sono un comunista". Il problema è lì: la Chiesa capisca che deve uscire dalla logica della pura carità (beninteso: ci dovranno essere sempre le persone come Madre Teresa: però poi non si venga a criticare chi s'impegna in politica o economia per cambiare le strutture, perché altrimenti ci troveremo sempre a dar da mangiare a chi muore di fame). Il Dio dell'Esodo libera il suo popolo, ma per un progetto. E Dio ha il sogno di un'economia di uguaglianza, che domanda una politica di giustizia, che richiede una religione libera, slegata dal sistema e che ascolta il grido delle vittime. Ecco il cuore dell'esperienza religiosa. Ed ecco il compito della Chiesa davanti alle statistiche sul crescendo pauroso della miseria».

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